Storia di una diaspora
Per dire come mai ha scelto l’Italia e il Salento Mustafà parte da lontano. Ci tiene a farlo perché altrimenti non capirei la sua vicenda né quella di tanti altri come lui. Mustafà è kurdo, originario della zona di Dyarbakir, nel sud est della Turchia, e per spiegare perché è qui mette in mezzo i suoi nonni, i suoi genitori e le loro continue migrazioni tra Siria e Turchia, mette in mezzo la politica internazionale, il petrolio, le armi, gli interessi delle potenze, Israele e Stati Uniti in primis, il cui scopo, dice, è il controllo dell’area mediorientale anche attraverso buoni rapporti con la Turchia. E al centro ci sono le vicende del suo popolo. Gli eccidi, la discriminazione e la repressione, la mancanza di uno Stato kurdo e la frammentazione. “Quando qui devo dichiarare la mia nazionalità, io dico che sono kurdo, ma non serve a niente. Per le autorità siamo turchi ma per noi la Turchia non è la nostra vera nazione!” Non è solo una battuta ingenua... è il diritto all’esistenza del suo popolo che è in ballo, dice. Per più di dieci anni ha vissuto nel nord est della Siria, a Qamishli, dove ha studiato fino al diploma. “Anche se in Siria i kurdi non se la passano per niente bene, almeno ho potuto avere un’istruzione e servizi sociali decisamente migliori di quelli che (non) ci vengono riservati nel Kurdistan turco.” Per il suo impegno politico nelle file del Partito dei Lavoratori Kurdi (PKK), Mustafà è finito anche in carcere.
Alla fine arriva la risposta che ho aspettato: “Militarizzazione dei luoghi in cui viviamo, insicurezza, paura... si si! paura! Non mi vergogno a dire che è soprattutto la paura che ti spinge ad andare via!” E allora nel 1990 ha deciso di partire, raggiungendo la Germania. Poi, nel 2000, finalmente nel Salento. “Mi avevano detto che a Lecce ottenere un permesso di soggiorno era più facile. Poi ho fatto i lavori di sempre: giardiniere, servizio in ristoranti e hotel. Ma anche traduttore e mediatore per gli immigrati, visto che parlo sette lingue.” Mustafà vive a Casarano, dove lavorava e l’alloggio è più economico. “Tutto sommato mi sono trovato bene qui, con la gente e con il lavoro. Anche il rapporto con gli altri immigrati è buono. Sono di origine musulmana, anche se assolutamente non praticante, e in ogni caso questo non mi ha dato mai problemi.”
Le difficoltà sono quelle solite quando si parla di immigrati: accesso ai servizi, assistenza sanitaria, lavoro, lingua, soggiorno, incertezza in tutti i sensi. “In questo mi aspettavo qualcosa di meglio e in generale credo che le istituzioni, i Comuni, la Provincia, debbano fare di più.” Comunque a Mustafà non è andata male: “Devo dire grazie alle tante persone che mi hanno dato una mano, a “LecceAccoglie” e alla Caritas, che mi hanno aiutato a superare molti problemi.”
Alla fine ritorna sulle “grandi questioni”: “Mi piace l’Europa perché si può essere liberi e c’è democrazia. Ma proprio perciò non capisco perché chiude gli occhi davanti alle violenze che noi kurdi subiamo continuamente. Forse ha paura. Conosciamo tutti l’importanza della regione mediorientale, sappiamo quanto è sentita la “minaccia islamica”: probabilmente l’Europa non fa sentire la sua voce per tenersi buoni alcuni stati dell’area e per timore di subire ricatti.”
Intervista e traduzione dall’arabo di Salvatore De Simone
lunedì, marzo 27, 2006
mercoledì, marzo 22, 2006
TREBLE, lu Professore
INTERVISTA AD ANTONIO "TREBLE" PETRACHI, lu Professore.
TREBLE, Lu Professore e' uno dei cantanti ed autori dei S.S.S di cui è' un membro fondatore. Conosciuto come Lu professore per la grande mole di testi e musiche preparate e prodotte nel corso della ventennale attività con Sud sound system.
Ma Professore anche perchè, nella permanenza (dieci anni) in quel di Bologna per studi, iniziando a fare musica con altri salentini doc, ggd, dj war, papa gianni, etc… ha " professato" il ritorno delle "menti"al sud, una sorta di rimpatrio, una specie di emigrazione al contrario.
E proprio di questo ci parla Treble, del motivo che lo ha spinto in questi anni a parlare dell'importanza del ritorno:
" Penso sia fondamentale tornare nella terra che ti ha dato le origini e riappropriarsi del rapporto fondamentale che si ha con essa. Magari emigri per ragioni di studio o lavoro, o perchè senti il bisogno di conoscere, di crescere. Ma non è giusto che ti tenga tutto per te. Se ognuno avesse il desiderio di cambiare le cose, anche se difficili, potrebbe riuscire a farcela anche qui. Se invece decide di fuggire alimenta lo sfruttamento che questa terra subisce da ani da parte del sistema. Una volta negli anni '60 esisteva la Questione Meridionale. Oggi ce la siamo dimenticata. Una volta la terra ricca era la nostra, ricca d'agricoltura e di risorse. Poi ovviamente queste sono state sfruttate dai paesi più ricchi economicamente e noi siamo stati costretti ad emigrare.
Negli anni si è parlato anche di arretratezza culturale del sud, la si è inventata probabilmente per controllarlo meglio. Ma tutti sanno che ciò non è vero: noi siamo ricchi di storia e di cultura formatasi negli anni attraverso gli incroci di razze e le contaminazioni che ne derivarono ci segnarono molto a livello artistico. Mi piace pensare che noi geneticamente siamo portati all'espressione.
Il fenomeno attuale è quello del raggamuffin. Tutti cercano di spiegarselo, ma al di là del fermento attorno al S.S.S. la spiegazione risiede in quello che ho detto prima.
L'altra faccia della medaglia è lo sfruttamento che il sistema attua nei confronti di questo fenomeno. Hanno dato un'immagine retorica e da cartolina a questo posto. La gente pensa che qui tutto l'anno è come i caraibi: spiagge reggae sole. Perchè glielo fanno credere. Sono specchi per le allodole. Poi quando vai sul concreto ti accorgi che in tutto il Salento non esiste una sala prove o d'incisione gestita dal comune!
Inoltre la situazione culturale in genere, di massa, vada peggiorando. C'è poco approfondimento, poca voglia di conoscere. Ad esempio qui ci sono molte dancehall ma se provi ad andarci in qualcuna di queste ti accorgi che la musica è tutt'altro che reggae. Spingono l'hardcore perchè è quello che va...è di moda!
Ma le situazioni possono comunque cambiare...c'è una frase che mi piace ricordare: se una formica vivesse con la paura di essere schiacciata dall'uomo...la sua vita non avrebbe senso!"
Come vedi il reggae di oggi? Lo stile roots è morto?
"Il reggae di oggi è figlio del tempo come ogni cosa di oggi, venti anni fa era essenzialmente suonato da band, oggi lo si produce con il computer; utilizzando la tecnologia in ogni fase: arrangiamento, ripresa, registrazione, mastering ecc...non potrebbe essere diversamente.
francamente posso dire che dove c'è sensibilità artistica la tecnologia, il "digitale", non può che aiutare, forse in alcuni casi potenziare le possibilità compositive e di esecuzione; ma nessuno può negare che un basso analogico parla al cuore di più che un'onda sinusoidale, il riff di un batterista ha più feeling di una rullata fatta sulla tastiera, un compressore a valvole dà l'anima ad un suono da registrare, tant'è che Oggi la strada che si cerca di intraprendere nella produzione musicale è quella della integrazione tra sistemi analogici e sistemi digitali.
il problema è che, nel tempo, sono essenzialmente aumentati i bpm (battiti per minuto) delle musiche reggae. Sembrerebbe solo un aftto tecnico ma non lo è. Il reggae è nato rallentando il rock steady e lo ska, musiche che alla fine degli anni 50 dominavano le scene musicali della giamaica e dei luoghi dove immigrati giamaicani vivevano(Stati Uniti, Inghilterra), per averne la prova basta prendere un brano Ska appunto e rallentarlo. Il reggae è nato per essere una musica che parte dal cuore ed arriva ad un altro cuore, per essere in sintonia con il cuore non può che avere il ritmo del cuore; il cuore umano batte mediamente 60 volte al minuto, così è il ritmo reggae, il ritmo roots. Poi la tecnologia, la disco degli anni settanta, l'america del business , hanno sconvolto questi "canoni umani", si deve ballare, più veloce, 70, 80,90 bpm, la techno, anche oltre 120 ....e così l'industria ha puntato sul lato disco del reggae, la sua caratteristica innata di far muovere la gente è stata usata per far andare la gente a ritmi più veloci, da discoteca, da consumare il più presto possibile...Il risultato è che Il Reggae ha cominciato a superare le barriere geografiche e politiche della musica, da musica di emancipazione sociale e denuncia (vedi Marley per chi conosce solo Lui) è diventata una musica da consumare, di moda, tendenza...ma...eh si.. ha perso dei contenuti...venire dal cuore e aprlare al cuore vale per tutti.
Ogni tanto, periodicamente, in Giamaica almeno, c'è come una fiamma di ritorno, il roots, il ritmo delle radici, quello per intenderci più simile al suono dei wailers, torna alla ribalta con ritmi e testi e cantanti che possiamo chiamare Reggae, senza errare. Il fatto è che lo show business vince sempre, l'Hip Hop americano, sponsorizzato da major, anche in Giamaica, ha per esempio sconvolto il modo di cantare degli artisti giamaicani, che hanno introdotto liriche tipicamente hip hop, snaturando la classica cadenza dello stile reggae e raggamuffin...e pensare che il rap era nato da giamaicani che emigrati in America ( vedi KRS one fra i tanti e forse tra i primi)
Così lo stile roots è succube di scelte musicali dettate la biz.Bisogna sottolineare una cosa però, che ancora oggi un artista giamaicano per essere apprezzato da pubblico e critica deve avere almeno un brano roots nel suo repertorio."
Quando dici "la musica è uno stile e non ha diversi stili" che intendi?
"Spesso nella musica cosiddetta di contaminazione, termine che non mi piace troppo perchè nulla si crea o si distrugge ma tutto si trasforma, un metro per capire se il risultato prettamente musicale è riuscito sta(secondo il mio parere) nel non rintracciare più uno "stile" definito, è come mettere tanti colori insieme e non rintracciare più i fondamentali, è come unire tanti ingredienti per preparare una pietanza che non è ne solo cipolla, o solo pomodoro, o solo zucchine, ma un tutto unico e armonico. Forse Sona Musica percorre questa strada, qualcosa che punta all'essere e non all'avere."
Qual'è la storia del fortunato slogan "salento lu sule lu mare lu ientu"?
"Anni fa, fine ottanta, diversi brani che allora nascevano tra i novelli compositori dei sss, parlavano del SALENTO, forse tra i prime a utilizzare nelle canzoni questa parola e a portarla in giro, promuovendo la terra , le proprie origine e comunque denunciandone problemi e arretratezze o presunte tali, nelle dance hall di allora, come ancora oggi, era un punto di forza della serata dedicare delle rime al Salento, face tenere unite le persone, intorno ad un sentimento: quello di dire, si siamo al Sud, terra abbandonata puru de li figli soi, ma noi siamo qui, ascoltiamo Reggae e la nostra terra la amiamo e rispettiamo, nonostante mafia e sfruttamento politico, per il salento e contro questi cantiamo e portiamo musica: Tra i primi brani dei sud c'era per esempio :"Abbasciu allu Salentu nui bruciamu cullu Reggae...,
così si cantava allora, e si sentiva nelle dance hall organizzate in giro nel Salento anche "Salentu la terra de lu sule de lu mare de lu reggae e de lu ientu", poi entrata nell'immaginario comune, è un pò come Punnu Ieu, oppure Cicileu, sono parole o frasi sentite durante le dance hall, sciorinate in quegli anni freschi, dai novelli cantori de sta terra amara, li sud appunto. "
In che rapporti sei con i s.s.s.?
"in fase di stallo... "
Tra i brani storici di Treble, oggi ritenuti dei classici, ricordiamo: FUECU, T'HA SCIUTA BONA, Reggae Internazionale, Comu na Petra, Musica comu mare, Statte cu mie, Musica Musica, fino ai più recenti Le radici ca tieni, Trenu, La gente povera. Già negli anni ottanta e novanta ha dato importanti input e forme a differenti esperienze musicali, come i Mustapha Mc's, che realizzarono il demo di T'Ha sciuta bona, il primo brano in assoluto ad essere scritto in raggamuffin salentino, Isola Posse all stars, antesignani dell' Hip Hop italiano, dai quali scaturì poi l'esperienza singola di Neffa, i Calura, per anni tra le migliori reggae band della nazione. Tornato in Salento, mettendo a frutto le esperienze e i contatti degli anni da "emigrato", dopo aver fondato la Tripla Esse insieme a GGD, DJ War, Papa Gianni e Militant P, si è dedicato, insieme ai Sud al progetto di creare una etichetta discografica indipendente per valorizzare e promuovere i talenti salentini, oltre che partecipare agli innumerevoli concerti, in qualità di chitarrista e cantante, con i SSS, e produrre tutti i loro i album fino a Lontano.
Insieme ai Sud SS, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali Il premio Tenco come miglior album in dialetto (Lontano, 2003), ha prodotto le musiche dello spettacolo Acido Fenico con la compagnia teatrale Koreya, partecipato alle colonne sonore di films quali Sud, di Salvatore, Pizzicata e Sangue vivo di Winspeare, liberate i pesci di C.Comencini.
DON PASTA
Food Sound System
manuale politico di gastronomia musicale
Food Sound System è un'idea del dj salentino Don Pasta, in arte Daniele De Michele.
"Questo non è un libro di cucina. O meglio, non solo. È la "jam-session" di un dj che ha mixato cucina e musica in unafusion di odori, suoni e sapori. Siamo in pieno Mediterraneo, tra Salento, Provenza e Maghreb." così inizia la presentazione del libro edito dalla Kowalsky (Feltrinelli) e disponibile nelle librerie da gennaio 2006.
DonPasta parla con noi della nascita prima che fisica "mentale" del progetto. La premessa è che Daniele nasce e vive a Otranto fino all'età di 18 anni; una volta finita la scuola decide di trasferirsi a Roma spinto da una voglia irrefrenabile di arricchire le sue conoscenze musicali e sopratutto di trovare spazio per esprimersi culturalmente.
"Il fatto di aver trascorso tanti anni chiuso in un paesino come Otranto in un Salento profondamente diverso da come è adesso, mi ha portato a dedicare la maggior parte del mio tempo all'approfondimento della cultura musicale. Una volta poi, trapiantatomi a Roma ho potuto vedere la differenza pazzesca che esiste tra i tempi della società moderna e quelli a cui ero abituato io. Differenza che prendeva forma nella cucina.Nel Salento dove sono cresciuto la cucina implicava un profondo rapporto con le stagioni con il tempo, con la terra e i prodotti agricoli. A Roma, come in tutte le grandi città, molte persone non hanno mai vissuto tutto questo."
Mi piace sentire parlare Daniele di un Salento che non conosco...e allora gli faccio la solita domanda:
Come è cambiato musicalmente il Salento in quasi più di dieci anni?
All'epoca non era come è adesso. Non aveva i riflettori puntati come ce li ha ora. Le uniche serate agli inizi degli anni '90 erano qualche dancehall dei primi Sud Sound System quasi sempre al Babilonia (locale sul mare a Torre S.Andrea, frequentatissimo ancora oggi l'estate, ndr) e qualche serata house in giro nei paesi. Non esisteva altro! O meglio...non esistevano "discoteche rock". Per quanto mi riguarda passavo le mie giornate in una Otranto invernale, malinconica e deserta, soffrendo dell'impossibilità di esprimermi culturalmente.
Appena finita la scuola mi trasferii a Roma con la voglia matta di arricchirmi sia culturalmente che musicalmente. Agli inizi tornavo a Otranto l'estate e , ricco dell'esperienza romana, organizzavo serate ed eventi nel Salento. Cominciai alla "Talega" a Otranto nel '94-'95 (che poi divento "Mandragola") in cui mi occupavo della gestione artistica. Ogni sera li dentro si creava una situazione diversa: c'era la serata reggae, quella jungle, quella rock. In quel posto riusci portare i Villa Ada (gruppo reggae romano) e spesso i Sud. Poi occupandomi della rassegna "Bass Culture" riusci a far suonare i Sud Sound System e Laurel Aitken!
In quel posto potevo finalmente esprimere il mio approccio versatile alla musica: appassionato dei Clash mixavo rock, punk e reggae. All'epoca mi chiamavo Faugno (a causa dell'eccessiva umidità che c'era nella Talega!) e suonavo i piatti con attitudine particolarmente punk!
Nel '96 a Roma organizzai la prima festa di San Martino chiamata "San Martino is drunk" al centro sociale Intifada e fu una sorpresa vedere 300 persone per la prima volta riunite in centro sociale nella capitale d'Italia a festeggiare una "loro" festa!La manifestazione crebbe ogni anno di più e nel '99 diventò "SCIROCCU" vedendo la partecipazione nel 2003, al c.s.o.a. SNIA viscosa, di 4000 spettatori (ovviamente non più solo salentini) che assistevano alle meravigliose performances di Uccio Aloisi e degli Opa Cupa."
Cosa pensi riguardo l'allontanamento dalla terra natia, e più in generale riguardo lo spostamento?
"Il luogo dove sei nato te lo porti appresso ovunque. Me lo sono portato nella scrittura, nel modo di comportarmi, nelle abitudini. Il legame con la terra natia va comunque rielaborato e per fare ciò non hai bisogno di stare lì. E' da 13 anni che vivo lontano dal Salento, ma in tutto quello che ho fatto me lo sono portato appresso. E' una terra speciale.
Lo spostamento direi che è essenziale. Il fatto di fare i conti con la diversità di altri popoli ti arricchisce inevitabilmente. Ho vissuto due anni in Francia e lì la situazione è molto diversa. Ho potuto realmente vedere cosa significhi società multirazziale. Parigi è come Londra: l'una influenzata profondamente dalla civiltà araba, l'altra da quella caraibica. Sono influenze profonde che in un paese come l'Italia, dove l'immigrazione è recente, non hanno modo di esistere. Ed è un peccato perchè la diversità arricchisce!"
Grazie Daniele!
" Grazie a te..."
martedì, marzo 07, 2006
KUMENEI a Capo Verde
DIARIO DI CAPO VERDE Festival Sete Sois Sete Luas
La rassegna delle culture migranti Negroamaro, patrocinata dalla Provincia di Lecce, ha avviato un gemellaggio con il festival mediterraneo “Sete sois sete luas”.
Un legame, questo, già attivo dall’estate 2005, quando la rassegna nostrana, in collaborazione con Zero Project e Lab 05, ha ospitato una sezione dedicata alla musica, al cinema e alla cultura di Capo Verde in occasione del trentesimo anniversario dalla liberazione dal Portogallo raggiunta il 5 luglio 1975.
Il 4 e il 5 novembre 2005, un pezzo della rassegna salentina, rappresentato dalla musica dei Kumenei., si è trasferito nello splendido scenario dell’arcipelago capoverdiano.
Abbiamo intervistato Marco “Puccia”, uno dei fondatori del gruppo di etno musica salentina e ci siamo fatti raccontare il loro diario di Capo Verde.
“Il nostro viaggio?Una lunga storia durata sei giorni intensi. Appena arrivati, cominciamo a sentire aria di Africa, il vento e il caldo secco ci accolgono. Da Praia prendiamo un aereo per l’isola di Sao Vincente, destinazione Mindelo: da qui viaggio in traghetto per Porto Novo, isola di Santo Antao. Saliamo in autobus e attraversiamo interamente la striscia di terra per giungere a Ponta Do Sol, dove riposiamo dopo…30 ore di viaggio!
Il giorno dopo, 4 novembre, visitiamo le suole di Ribeiro Grande. Nonostante la grandissima povertà, in questo paese riescono a raggiungere una frequenza alle scuole primarie molto alta. Noi regaliamo ai bambini quel poco che possiamo…la nostra musica, mentre loro ci dedicano una canzone di benvenuto, sorrisi e abbracci.
La sera suoniamo per ultimi al Festival con tutta l’energia dataci da questa magnifica gente. Non possiamo che ricambiare la splendida ospitalità, facendo di tutto per far ballare il pubblico. Per gli organizzatori è una scommessa vinta: realizzano una così importante manifestazione, là dove prima sembrava impossibile, grazie anche all’aiuto dei politici locali e soprattutto agli abitanti delle isole, vogliosi e amanti dell’arte.
La mattina del 5 torniamo a Praia, abbiamo il tempo di mangiare in un ristorante tipico e di ascoltare un po’ di musica della zona.
Il 6 novembre c’è già l’odore del ritorno a casa, ma facciamo in tempo a fare un tuffo nel mare dell’ Oceano e, nel pomeriggio, a suonare in Parlamento.
Da qui ricomincia l’estenuante ritorno a casa….ma questa è solo una cronaca senza colore.
Come facciamo a raccontarvi dell’orgoglio di quella gente, dell’ospitalità e della loro gioia di vivere, dei bambini di Ribeira, del viaggio nella Vallata di Paùl, della povertà visibile, ma impalpabile, grazie ai sorrisi e agli occhi di quel popolo. Come raccontare della corruzione che esiste nelle grandi sfere, o del reddito medio che tocca a stenti i nostri 300 euro al mese, o della ormai perenne siccità.
Noi abbiamo trovato solo il buono in un un Paese dove il male potrebbe fare da padrone. Abbiamo visto negli occhi della gente non la tristezza, ma la fierezza per quel poco che hanno.
OBRIGADI.”
Di Sabrina Manna – Zero Project
Diario di Marco Santoro Verri
Diario di Marco Santoro Verri
Lì non c'è legge
Secondo un dossier della Comunità europea che ha inviato 21 tecnici tra novembre e dicembre del 2004 in Libia, circa 6mila persone sarebbero state deportate, senza l’accertamento dell’effettiva nazionalità, in base ai finanziamenti forniti dall’Italia previsti dall’accordo firmato nell’agosto del 2004, di cui non è dato saper molto. Deportazioni che avvengono dopo arresti e detenzioni arbitrarie nei centri operativi in Libia uno dei quali finanziati dal governo italiano.
Nonostante la Libia abbia dimstrato la totale mancanza di rispetto delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani ( non è firmataria neanche dell’accordo di Ginevra) continua ad essere considerata dal Governo italiano il partner ideale per il contrasto all’immigrazione clandestina. Il ministro degli esteri Pisanu ha infatti siglato nel gennaio 2006, al termine di un lungo e cordiale incontro, un memorandum di intesa con il ministro libico Naser Al Mabruk.
L’immigrazione clandestina, intanto, continua a passare dalle coste della Libia allestite a veri e propri campi di concentramento; ce lo racconta chi in questi luoghi è stato e non può dimenticare.
E’ la storia di un giovane ghanese, fuggito dalla guerra nel marzo del 2002 alla volta dell’Europa. Racimolati 250 dollari è salito su un camion insieme ad altri 300 disperati: “Ci sono volute due settimane per attraversare il deserto del Niger sino alla Libia. Eravamo stipati come animali senza cibo né acqua, solo i pochi viveri che eravamo riusciti a portare con noi prima del viaggio”.
“Giunto in Libia ognuno ha preso la sua strada e io mi sono ritrovato senza soldi e senza casa, ho trovato lavoro come bracciante e dopo due mesi sono riuscito a racimolare i 1000 dollari necessari per il viaggio”. E’ qui che inizia la seconda parte della sua odissea: finalmente ha i soldi, crede di poter scappare andare al di là del mare, ma non è così, “Ho dato i soldi a quell’uomo che mi aveva assicurato il viaggio ma lui invece mi ha portato nel campo. Era una baraccopoli vicino al mare”. Si tratta di veri e propri campi di concentramento in cui i clandestini vengono rinchiusi per mesi. “Mi ha detto che dovevo aspettare eravamo in pochi, la barca doveva essere piena per partire. Ho aspettato due mesi chiuso lì dentro, in condizioni igieniche disumane, l’acqua era sporca non ci davano da mangiare c’erano donne e bambini un’incubo”. Dopo due mesi finalmente si arriva al numero necessario per patire sono circa 230 persone. “La barca era vecchia e piccola perdeva acqua da tutte le parti abbiamo passato i tre giorni di viaggio a svuotarla con i secchi”. Finalmente si intravede la costa è la Sicilia. Il suo incubo ancora oggi non è finito, sono passati tre anni ma è ancora un clandestino un fantasma per la legge italiana. “ Sono stato più di quattro mesi nei cpt italiani ma non dimenticherò mai quel campo in Libia, lì non c’è legge non c’è bisogna avere paura di quel paese”.
Nonostante la Libia abbia dimstrato la totale mancanza di rispetto delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani ( non è firmataria neanche dell’accordo di Ginevra) continua ad essere considerata dal Governo italiano il partner ideale per il contrasto all’immigrazione clandestina. Il ministro degli esteri Pisanu ha infatti siglato nel gennaio 2006, al termine di un lungo e cordiale incontro, un memorandum di intesa con il ministro libico Naser Al Mabruk.
L’immigrazione clandestina, intanto, continua a passare dalle coste della Libia allestite a veri e propri campi di concentramento; ce lo racconta chi in questi luoghi è stato e non può dimenticare.
E’ la storia di un giovane ghanese, fuggito dalla guerra nel marzo del 2002 alla volta dell’Europa. Racimolati 250 dollari è salito su un camion insieme ad altri 300 disperati: “Ci sono volute due settimane per attraversare il deserto del Niger sino alla Libia. Eravamo stipati come animali senza cibo né acqua, solo i pochi viveri che eravamo riusciti a portare con noi prima del viaggio”.
“Giunto in Libia ognuno ha preso la sua strada e io mi sono ritrovato senza soldi e senza casa, ho trovato lavoro come bracciante e dopo due mesi sono riuscito a racimolare i 1000 dollari necessari per il viaggio”. E’ qui che inizia la seconda parte della sua odissea: finalmente ha i soldi, crede di poter scappare andare al di là del mare, ma non è così, “Ho dato i soldi a quell’uomo che mi aveva assicurato il viaggio ma lui invece mi ha portato nel campo. Era una baraccopoli vicino al mare”. Si tratta di veri e propri campi di concentramento in cui i clandestini vengono rinchiusi per mesi. “Mi ha detto che dovevo aspettare eravamo in pochi, la barca doveva essere piena per partire. Ho aspettato due mesi chiuso lì dentro, in condizioni igieniche disumane, l’acqua era sporca non ci davano da mangiare c’erano donne e bambini un’incubo”. Dopo due mesi finalmente si arriva al numero necessario per patire sono circa 230 persone. “La barca era vecchia e piccola perdeva acqua da tutte le parti abbiamo passato i tre giorni di viaggio a svuotarla con i secchi”. Finalmente si intravede la costa è la Sicilia. Il suo incubo ancora oggi non è finito, sono passati tre anni ma è ancora un clandestino un fantasma per la legge italiana. “ Sono stato più di quattro mesi nei cpt italiani ma non dimenticherò mai quel campo in Libia, lì non c’è legge non c’è bisogna avere paura di quel paese”.
Paola Alem (xx_paola@yahoo.it)
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